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Gilet gialli: uno sguardo sulla provincia

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Siamo tornati in Francia, dove da un mese a questa parte un movimento nato da una petizione on-line contro l’aumento del prezzo del carburante si è presto diffuso su tutto il territorio, andando ben oltre nelle rivendicazioni e dimostrando di essere in grado di dare filo da torcere all’ipotesi governativa macroniana. Abbiamo deciso di spostarci per qualche giorno tra la Drome e l’Ardeche, in una zona peri–urbana, scarsamente connessa al trasporto pubblico e dove l’uso della macchina è indispensabile, scegliendo quello specifico delle realtà piccole o piccolissime di provincia come contesto in cui andare a toccare con mano e capire qualcosa del movimento dei Gilets Jaunes. Dopo settimane in cui il movimento dei gilet è stato guardato di traverso negli ambienti di estrema sinistra nostrani, le fiamme di Parigi sembrano aver risvegliato l’attenzione, addirittura l’entusiasmo, di molti. Ci pare, però, sempre con uno sguardo assai superificiale: o troppo schiacciato sulle dinamiche della “politica politicata” e i suoi equilibri, nonostante questa sfera si presenti quanto mai aliena a chi scende in piazza mettendo il gilet, o con un tipico fascino dell’estetico, molto sensibile al gesto e poco alle soggettività che si perdono nella retorica della “confusione” che presidierebbe il movimento. Eppure, ascoltare con curiosità e soprattutto prendere le persone sul serio ci continua a sembrare l’attitudine corretta per capire le istanze che questa rivolta continua a porci e chiederci di approfondire. Questo reportage vuole essere un contributo in questo senso.

VOREPPE

E’ ormai mercoledì sera quando arriviamo a Voreppe, un paese di circa 10.000 abitanti non molto distante da Grenoble. Decidiamo di andare a bere una birra e mangiare un boccone per approfittare di un posto al caldo in cui sederci a organizzare l’itinerario dei blocchi da raggiungere il giorno successivo. Poco prima che decidessimo di ritirarci due uomini al bancone, attirati dal nostro italiano, si avvicinano chiedendoci cosa ci facessimo a Voreppe.

La nostra risposta – siamo partiti perché ci piacerebbe conoscere più da vicino la mobilitazione dei gilet gialli – li colpisce positivamente. La primissima impressione che abbiamo avuto è che ci fosse voglia e bisogno di raccontarsi, di parlare di sé e della propria esperienza all’interno delle mobilitazioni. Un’impressione che si è riconfermata nella facilità con cui, di lì a poco, ci saremmo approcciati alle persone incontrate ad ogni tappa del nostro viaggio.

Jean, un uomo di 48 anni che di mestiere fa l’artigiano, ci racconta orgogliosamente di essere un Gilet Jaune e nel frattempo sfodera il telefonino per mostrarci una foto di lui con il fratello e il nipote al blocco della settimana precedente, qualche attimo prima che la polizia li sgomberasse violentemente. “Questo weekend ci sarà un altro blocco, durante il fine settimana non lavoro quindi sicuramente ci sarò. E’ strano da spiegare, la sensazione che ho è che più frequento il blocco più ho voglia di passare lì il mio tempo e sento il bisogno di andare”. Riappoggiamo le giacche sulle sedie e cominciamo a chiacchierare con Jean e Alì, un uomo di origine magrebina coetaneo di Jean che lavora in un’azienda che si occupa di manutenzione di frigoriferi. Anche Alì attraversa le dimensioni di blocco quando non lavora, decide di raccontarci come ne è venuto a conoscenza e perché ha deciso di prendere parte ai momenti di mobilitazione: “Qui in paese il passaparola ha funzionato molto per tante persone. Io ad esempio ho degli amici che conoscono bene quelli che avevano organizzato il primo blocco, il 17 novembre. Qui al bar e in generale in paese, è da settimane che si parla di Gilets Jaunes. Tra una chiacchierata e l’altra mi sono reso conto che la mobilitazione non riguardava solo la questione della carbon tax e che è importante partecipare attivamente ai momenti di blocco per cercare di cambiare le cose”. “Ha ragione” lo interrompe Jean “Negli ultimi anni i prezzi si sono alzati tantissimo. Qui a Voreppe tante piccole attività sono state costrette a chiudere. Pensa che una volta con 200 franchi si poteva uscire a fare festa, ora qui in paese tutti abbiamo problemi di soldi!” “Esatto” conclude Alì guardando il bicchiere di birra: “Questa non è vita, possiamo dire che si sopravvive. È per questo che in tanti abbiamo deciso di partecipare”.

Mentre ascoltiamo Jean e Alì, sullo schermo del televisore a muro del bar scorrono le immagini dell’attentato di Strasburgo del 11/11. Jean indica lo schermo e ci dice che secondo lui “è tutto un diversivo, i media e il governo cercano di distogliere le attenzioni della gente dalla mobilitazione. Ma non hanno capito, sabato non ci fermiamo mica!”. Una voce femminile alle nostre spalle interrompe quella dello zelante telecronista intento a sviolinare sulle capacità di gestione del momento di Presidente della Repubblica e Ministro degli Interni e a congratularsi sull’operato delle forze di polizia. E’ quella della barista, sulla trentina, che dice la sua su Macron: “E’ uno stronzo, lui e tutti gli altri. Manu sta iniziando ad avere paura della “sua” gente e fa bene”.

CHATUZANGE-LE-GOUBET

Sono circa le 8.30 di giovedì mattina quando imbocchiamo l’autostrada A/49 per raggiungere Chatuzange-le-Goubet, un paesino di poco più di 4’000 persone del dipartimento della Drôme.

A colpirci è l’impatto, anche visivo, che si ha lungo il tragitto e che ci sembra restituire almeno un accenno della diffusione e della condivisione delle istanze del movimento. Facendo caso ai cruscotti delle macchine che incrociamo o di quelle parcheggiate e alzando lo sguardo verso i balconi e le vetrine di alcune attività commerciali, passando di paese in paese, l’occhio è costretto ad abituarsi velocemente al giallo fluo dei gilet, esposti ovunque.

Arrivati all’imbocco del paese, scorgiamo due uomini con il gilet a lato della strada, accanto a un cartello riportante la scritta “Qui va payer? Nous.”

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Dopo esserci presentati, chiediamo a uno di loro di raccontarci come fosse la situazione a Chatuzange. “A quest’ora, durante la settimana, spesso non riusciamo a essere in tanti contemporaneamente. Organizziamo dei turni per darci il cambio in base agli orari di lavoro per non smobilitare mai il presidio, nel weekend siamo di più”. Pierre, quasi quarant’anni, ci racconta della mobilitazione delle ultime settimane e degli arresti che la polizia ha effettuato il sabato precedente durante lo sgombero della rotonda accanto a cui ci troviamo: “Non è stato l’unico intervento della polizia ma siamo ancora qui. Abbiamo poco da perdere e tanto da guadagnare” continua “Come me, tanti di quelli che vivono da queste parti dipendono dalla macchina per poter lavorare e non ci sono alternative possibili, i trasporti pubblici costano tanto e comunque qui siamo poco serviti. I primi tempi dicevano che i Gilet Gialli protestavano perché hanno il culo pesante e volevano inquinare a prezzi economici. Io credo che il problema dell’inquinamento ambientale sia reale e molto esteso, chi vive qui lo sa benissimo, ma non vedo come la soluzione a questo problema possa o debba passare dal costringere a spendere metà dello stipendio per andare a guadagnarlo, è un controsenso!”.

Pierre ha le idee molto chiare: se il pianeta è in questo stato drammatico, la responsabilità è di chi ha sempre messo davanti gli interessi predatori di un sistema economico non sostenibile all’emergenza ecologica e ambientale. Adesso Macron vorrebbe scaricare una fantomatica transizione ecologica sulle spalle di quelli che, tra l’altro, hanno sempre scontato maggiormente, anche in termini di salute, le scelte di chi prima contribuiva alla rovina del pianeta e contemporaneamente costringeva tanti nella condizione di non potere più accedere a servizi primari, come la sanità.

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Pierre, suo malgrado, con il servizio sanitario è costretto ad averci a che fare spesso: “Sono qui anche per mio figlio a cui è stata certificata una disabilità del 75%. E’ uno schifo, assistenza e aiuti per le famiglie che hanno a carico un disabile non sono sufficienti. Con lo stipendio che percepisco, a metà mese il mio conto è già in rosso. Non solo non ho abbastanza soldi per garantire a mio figlio una vita degna d’essere vissuta, non ne ho nemmeno per comprargli un regalo di natale. E’ anche per lui che sono qui”.

LORIOL-SUR-DROME

E’ ormai tarda mattina, quando prendiamo l’uscita Loriol-Sur-Drôme dell’autostrada A7.

Rallentiamo al casello, poco prima di accorgerci delle sbarre automatiche sollevate e delle bocchette delle banconote bloccate da dei cartelli con su scritto “Peage gratuit”.

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A Loriol-Sur-Drôme i Gilets Jaunes stanno bloccando, rendendo gratuito il pedaggio, da quasi un mese. Qualche metro più avanti, accanto alla rotonda che consente l’ingresso all’autostrada vediamo un gruppetto di loro intento a scaricare da una macchina ferma con le quattro frecce dei thermos di caffè e qualche pacco di biscotti.

Giusto il tempo di avvicinarci per sentire il proprietario dell’auto salutare e andare via. “Funziona così” ci spiega Monique “c’è molta solidarietà. Spesso chi non può fermarsi passa nell’andare a lavoro portando qualcosa che permetta a chi è al blocco di scaldarsi, del caffè o del the caldo, della legna per il fuoco..”. Monique è una delle donne che troviamo al blocco di Loriol, ha una cinquantina d’anni e fa la donna delle pulizie. “Ai blocchi partecipano moltissime donne” ci tiene a dire “c’è una presenza femminile forte. La vita è difficile per tutti, ma se sei una donna di più! Sono una mamma con dei figli giovani e ho una madre molto anziana ancora in vita di cui prendermi cura. Con lo stipendio che ho non posso certo permettermi una badante!” Accanto a lei c’è Catherine, 37 anni. Da qualche giorno per camminare è costretta ad aiutarsi con delle stampelle, si è fatta male al ginocchio durante le cariche dei CRS che volevano disperdere i manifestanti il sabato prima. “Noi donne non ci tiriamo indietro nemmeno davanti alla polizia!” dice sorridendo mentre fa spallucce “La polizia interviene quasi quotidianamente per impedirci di munirci di attrezzature stabili ma nessuno è intimidito, anzi, l’arroganza con cui ci trattano e la violenza con cui hanno agito nelle ultime settimane hanno motivato tante persone del paese a dare solidarietà e partecipare ai blocchi!”

Dopo aver accettato volentieri il caffè che ci offrono, guardiamo Marie mentre addobba un albero in mezzo alla piazzola: “l’altro ce lo hanno distrutto ieri”.

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Decidiamo di farle compagnia mentre appende le decorazioni natalizie e ci facciamo spiegare perché sia infastidita dalle strumentalizzazioni del movimento che i vari attori politici e media stiano cercando di fare: “Di noi hanno detto tante fesserie, per esempio che siamo tutti razzisti, ma non è vero. La loro strategia è quella di cercare di creare delle divisioni interne al movimento, vogliono metterci l’uno contro l’altro per indebolirci. A mio parere la nostra forza sta proprio nell’essere uniti e nell’avere imparato a riconoscerci come pari. Alla fine, se siamo qui, è perché siamo un po’ tutti sulla stessa barca. Io penso che se qualcuno si può permettere di passare il tempo a decidere se, come o quando appoggiarci è perché è un privilegiato che non ha bisogno di preoccuparsi di come arrivare alla fine del mese”.

La forza di questo movimento, ci spiegano, sta nel fatto di essere cittadini che compatti impongono al governo le proprie rivendicazioni in un rapporto di forza nuovo, non mediato da corpi intermedi. Un rifiuto delle forme di rappresentanza dovuto alla sfiducia generale nei confronti dei sindacati per alcuni e alla consapevolezza che proprio nell’assenza di canali a cui il governo possa appoggiarsi sta la potenza dei gilet gialli per altri. “Oggi il governo è costretto a riconoscerci come una forza, il gilet giallo è ciò che ci consente di essere ascoltati. Non ci sono sindacati a rappresentarci, siamo noi il nostro sindacato e non scendiamo a compromessi. Siamo cittadini, non siamo corrompibili e non abbiamo interessi da difendere”. “Non ci sono leader nemmeno tra di noi” aggiunge Catherine “vogliamo le stesse cose. Se qualcuno non può esserci quel giorno perché lavora o perché viene arrestato c’è qualcun altro”.

LE POUZIN

Ci spostiamo di pochi chilometri più avanti, sull’altra sponda del Rodano. E’ quasi ora di pranzo quando arriviamo a Le Pouzin, un paesino di circa 3’000 abitanti. Vediamo, ancora una volta, un gruppo di Gilet Gialli in presidio stabile accanto alla strada. Sono una quindicina, alcuni di loro attorno ad un braciere, altri intenti a costruire una tettoia con dei bancali e una cerata. Oltre al freddo, ha da poco iniziato a nevicare. Ci avviciniamo a uno di loro, attirati dalla scritta a pennarello “Medic” sul retro del suo gilet. Ci dice di non essere un vero medico, ma di avere seguito un corso di primo soccorso da giovane: “due settimane fa la polizia è intervenuta con molta violenza per sgomberare il blocco, non era mai accaduto nulla del genere a Pouzin. Ci sparavano addosso lacrimogeni e proiettili di gomma da quel cavalcavia li, tanti si sono fatti male. Sapevo che avrebbero fatto lo stesso la settimana successiva e ho deciso di scrivere “Medic” sul gilet, così se qualcuno avesse avuto bisogno di aiutato avrebbe saputo a chi rivolgersi”.

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Al nostro cerchio si aggiunge una donna ormai in pensione: “io non mi muovo mai di qua! Anche se inizia a fare freddo, mi piace passare il tempo qui al blocco, ho conosciuto tante persone e stretto molti legami. Inoltre, tanti di noi durante il giorno lavorano e riescono ad arrivare solo nel tardo pomeriggio, quando staccano, o nel weekend, quindi è importante che chi come me ha più tempo libero lo passi qui”. Continua spiegandoci che ha conosciuto altri pensionati che partecipano al blocco: “con la pensione che tanti di noi percepiscono non si vive serenamente ma io sono qui soprattutto per i più giovani che hanno ancora tutta la vita davanti”. Uno di quei “più giovani” ci raggiunge, forse sentitosi chiamare in causa, e la prende a braccetto. Philippe non ha un posto di lavoro fisso, è anni che cerca di arrangiarsi tra un contratto a tempo determinato e un lavoretto. Ci racconta di essere costretto alle volte a rivolgersi a un’associazione caritatevole che offre pasti ai poveri “io vivo con l’ansia di rimanere per strada, i soldi che riesco a guadagnare non mi bastano più per pagare la spesa, figurati l’affitto e le utenze, è tutto sempre più caro!”. “Se i politici non prendessero tutti i soldi che prendono ce ne sarebbero da ridistribuire per noi altri” commenta la pensionata, stringendogli il braccio in modo complice più che confortante.

Quello che ci sembra, continuando la discussione, è che il disprezzo per Macron (ben rappresentato dalla ghigliottina finta che taglia la testa al fantoccio del presidente che i gilet ci mostrano orgogliosamente) sia esteso a tutta una classe politica, ormai in crisi, che per anni ha promosso politiche atte a difendere gli interessi dell’alta finanza, delle lobby e dei privati a discapito dei cittadini. “Il suo progetto è quello di fare della Francia un paese di ricchi continuando con le sue politiche di attacco alla sua popolazione. Nel discorso alla nazione di qualche giorno fa ha dichiarato che la sua prima preoccupazione è la Francia e che la sua legittimità deriva dai francesi e non dalle lobby. Macron e il governo non hanno più alcuna legittimità, la Francia sono io, siamo noi, chi pensa di prendere in giro? Quel discorso non valeva niente, era solo un goffo tentativo di recuperare il recuperabile cercando di appianare gli animi. Come vedete, non ha funzionato”.

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Sabato infatti, come ogni fine settimana dal 17 novembre, anche a Pouzin si rimetterà in pratica il blocco della rotonda, situata in un punto strategico sulla strada dipartimentale che consente l’accesso in autostrada. Philippe ci dice che durante i weekend precedenti alcuni di loro si sono organizzati per andare a Parigi: “Il problema di andare a Parigi è che costa caro e poi credo che sia importante concentrarsi sulle iniziative a livello locale. Il fine settimana è il momento in cui più gente è libera dagli impegni lavorativi e può prendere parte al blocco. Ci sarà sempre qualcuno che andrà a Parigi a manifestare, qui a Pouzin invece dobbiamo costruire tutto con le nostre forze, quindi penso sia importante sfruttare i momenti in cui ce ne sono di più”.

AUBENAS

Decidiamo di entrare in un bar per riscaldarci e mangiare qualcosa prima di ripartire. Scopriamo che a Aubenas, una quarantina di chilometri più a sud, i gilet gialli stanno bloccando una rotonda nella zona commerciale del paese. Arrivati in zona, fatichiamo a trovare il modo per avvicinarci al blocco, è in corso lo sgombero e la gendarmerie blocca le principali vie d’accesso. Dopo qualche tentativo, parcheggiamo la macchina e ci incamminiamo verso la rotonda. Un’ottantina di persone, tenute a distanza dai CRS, guardano la ruspa che sta radendo al suolo l’accampamento costruito nelle settimane precedenti.

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Avviciniamo un signore che sta filmando la scena con il suo smartphone mentre ingiuria contro la polizia e l’autista della ruspa. Ci dice di fare parte del comitato dei Gilets Jaunes di Aubenas, lui non ha particolari problemi finanziari ma è solidale alle tante persone che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese che conosce e come loro vuole le dimissioni di Macron. Nonostante il nervosismo, la situazione non sembra destinata a degenerare: “Lo sgombero? Non implica la fine di nulla, loro oggi distruggono, noi domani siamo qui a ricostruire”.

Sul marciapiede, un uomo di 60 anni e suo figlio guardano un agente che intima ad una ragazza di mettersi sul lato della strada per consentire agli addetti di proseguire con il lavoro.

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Cominciamo a chiacchierare con loro, ci raccontano che qui il movimento ha avuto molta risonanza perché nella regione dell’Ardeche in molti son costretti ad utilizzare l’auto per spostarsi e lavorare.

Anche lui, ci dice, ha preso parte ad alcuni momenti di coordinamento. A questi momenti partecipano in molti, donne e uomini di età diverse, lavoratori impiegati nei settori più disparati e disoccupati. La scelta del blocco come pratica conflittuale deriva non solo da una serie di necessità oggettive come la provenienza da posti di lavoro molto differenti tra loro e gli scarsi rapporti di forza su di essi o la difficoltà per molti di scioperare a causa dei contratti e delle condizioni lavorative cui son sottoposti, ma anche dalla consapevolezza del “danno che oggi il blocco della circolazione di merci e capitali rappresenta per questo sistema economico”.

Entrando più nel merito: “i blocchi” ci dicono “hanno consentito a tante persone di conoscersi e stringere legami. E’ straordinario quello che è successo, attraverso il blocco si sono strette relazioni sociali differenti. Ognuno di noi ha imparato a conoscersi, la dimensione del blocco ha consentito che si creassero molti momenti in cui confrontarsi e in cui condividere i problemi e i disagi quotidiani. E’ come se ci fosse stata una presa di coscienza collettiva del fatto che non solo i problemi sono comuni, ma che c’è la possibilità di organizzarsi per far fronte a questi insieme”.

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